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suoi compaesani più poveri, e il rispetto, se non altro, di quei Gentili, coi quali gli affari o le funzioni sociali lo mettevano in contatto. In questa classe nessuno s’era, nella vita pubblica e privata, guadagnata più alta stima del padre del giovanetto di cui abbiam seguito i passi. Pur serbando vivo il ricordo della sua nazionalità, egli aveva fedelmente servito il suo Re in patria e all’estero. I suoi doveri lo condussero qualche volta a Roma, dove la sua condotta gli attirò l’attenzione di Augusto, che gli concesse intera la sua amicizia. La casa era piena di testimonianze di questi favori regali; toghe di porpora, scranni d’avorio, paterae d’oro, pregevoli sopra tutto perchè provenienti dall’imperatore. Un uomo siffatto non poteva che essere ricco; ma la sua ricchezza non derivava interamente dalla generosità dei suoi reali protettori. Egli aveva obbedito la legge che gli prescriveva di abbracciare una professione, ma invece di una, ne seguì parecchie. Centinaia di pastori che curavano gli armenti sulle pianure e sui colli, fino alle lontane falde del Libano, lo chiamavano padrone. Nelle città e nei porti di mare aveva fondato case commerciali; le sue navi gli recavano l’argento della Spagna, che allora possedeva le più ricche miniere conosciute; mentre, le sue carovane, arrivavano due volte all’anno dall’oriente, cariche di sete e di droghe. Egli era un Ebreo in tutto il significato della parola, ossequioso della legge e dei riti; fedele al suo posto nella Sinagoga e nel Tempio, profondamente versato nelle sacre Scritture. Si compiaceva della compagnia dei dotti, e la sua ammirazione per Hillele confinava con l’adorazione. Non di meno non era affatto separatista; la sua ospitalità accoglieva stranieri di ogni terra, e i bigotti Farisei lo accusavano di avere più volte invitato a cena dei Samaritani. Se fosse stato un pagano, e fosse vissuto più a lungo, il mondo avrebbe forse udito parlare di lui come del rivale di Erode Attico; invece egli morì in mare, dieci anni prima del secondo periodo del nostro racconto, nel fiore dell’età, con dolore di tutta la Giudea. Conosciamo già due membri della sua famiglia, la vedova e il figlio: non rimane che a conoscer la figlia, la giovinetta che abbiamo udito cantare al letto del fratello.
Essa aveva nome Tirzah, e, nel vedere quei due l’uno accanto all’altro, si comprendeva come fossero fratelli. Le sembianze della giovinetta avevano la regolarità di quelli di Giuda e denotavano il tipo ebraico, possedendo inoltre il medesimo fascino dell’ingenuità dell’espressione, propria