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vae victis! 195


Accese la luce e andò con rapidi passi allo specchio. E si guardò.

Si guardò a lungo facendo cenno di sì col capo, come una mentecatta; e la sua imagine riflessa, lunga e bianca nella camicia da notte, le faceva cenno di sì. Era vero. Ecco, ella ne riconosceva tutti i noti segni: quei lineamenti stirati, quegli occhi stanchi ed irrequieti, quella faccia che sembrava già troppo piccola in confronto al corpo — tutto tutto quell’aspetto spaurito, dolente — era la maternità! La maternità. Ciò ch’ella e Claudio avevano tanto desiderato, tanto sospirato — un altro figlio — ecco, ora le veniva concesso. La natura accordava alla violenza ciò che aveva negato all’amore.

Nell’esasperazione della tortura, nel parossismo dell’odio, la materia aveva risposto e fiorito.

Coi denti stretti, coi pugni chiusi ella guardava quell’imagine, guardava quel suo fragile corpo in cui si compiva l’eterno mistero della vita.

Notava la subdola preparazione della sua muliebrità per l’adempimento della sua missione: la curva già più marcata delle sue forme, e la trama delicata delle cerulee vene sul candor latteo del collo e del petto.

Con un gemito di creatura ferita ella nascose il volto tra le mani.