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i divoratori 33


Valeria, alla vista del suo vecchio zio Giacomo, gli si gettò con latina espansività tra le braccia; mentre la anglosassone Edith, bionda e rigidetta, cercava di non vergognarsi troppo delle voci alte e degli abbracci senza ritegno che prodigavano i nuovi arrivati, incuranti della gente che li guardava sorridendo.

Più tardi, quando furono tutti e quattro installati nel treno che li portava a Wareside, nell’Hertfordshire, Edith si abbandonò interamente al piacere di osservare i gesti dello zio Giacomo e gli occhi del cugino Antonio, che Valeria chiamava «Nino». Egli disse ad Edith che lo chiamasse Nino anche lei, e le parlò in una lingua che egli chiamava «banana-english».

Ed egli era così divertente che Edith rise e rise, finchè le venne la tosse, e tossì e tossì fino alle lagrime. Allora tutti dissero che non si riderebbe più. Fu un viaggio delizioso.

Quando il treno si fermò alla placida stazione campestre di Wareside, scesero e trovarono la signora Avory colla piccola Nancy ed il nonno ad aspettarli.

E vi furono nuovi saluti e nuovi abbracci. E quando, in due carrozze, arrivarono al portico della Casa Grigia, ecco sul limitare anche Fräulein Müller ad accoglierli, tutta rossore e ritrosia, col suo vocabolario italiano sotto il braccio.

Presero il thè molto allegramente, tutti parlavano in una volta, anche il vecchio nonno, che continuava a domandare: «Ma chi è questa gente? Ma chi sono queste persone?» rivolgendo la sua domanda soprattutto allo zio Giacomo, il quale, del resto, non comprendendo una parola d’inglese, gli sorrideva, rispondendo: «Yes.»

Verso sera la piccola Nancy, eccitata e piangente, dovette essere mandata a letto; e anche la signora Avory si ritirò col mal di capo. Ma Fräulein sostenne una con-