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i divoratori 29


— Ah! Valeria! adesso capisco, — disse Antonio con un risolino sarcastico.

— Precisamente. Ho telegrafato a Valeria che venivamo a trovarla. Ed ella ha risposto che ne era felicissima, e che sua suocera ne era felicissima, e che tutti erano felicissimi. Dunque partiamo. E subito. E staremo in Inghilterra tre mesi, sei mesi, dieci anni, finchè non ti sarà passata questa mattana.

— Sì, sì; tu pensi ancora a Valeria, lo so, — disse Antonio ridendo. — Oh, babbo, babbo! sei un incorreggibile sognatore! Non è mai stato che un sogno quel tuo desiderio di tanti anni fa. Valeria era tutt’occhi per il suo Inglese, allora. Ed ora che è morto sarà tutta lagrime per lui. Vedrai! — Si avvicinò alla corta ed irata figura paterna e gli mise un braccio intorno al collo. — Sta qui, papà, sta qui. Pensa al viaggio, come è incomodo. Resta e goditi la tua buona vita calma.

Ma suo padre non voleva saperne di restare nè di godere. Afferrò il suo candeliere e se ne andò crollando la testa e perdendo per via una pantofola, e facendo sgocciolare la cera per tutto il tappeto nel chinarsi a raccoglierla. Offeso e sdegnato se ne tornò a letto. Oh, per dio Bacco, finalmente leggerebbe in pace il suo «Corriere»!

Ma tuttavia stava in ascolto per sentire se la porta di casa si riapriva ancora.

Si riaprì.

Battevano le due del mattino quando Antonio svoltò per la via Monte Napoleone; e il portinaio del 37 lo fece aspettare dieci minuti prima di aprirgli la porta.

E Marietta lo fece aspettare quindici minuti sul pianerottolo prima di aprirgli l’uscio. E la signora lo fece aspettare quindici eternità prima di comparire, leggiadra e spaventata, drappeggiata in raso bianco, e coi capelli puntati «n’importe comment» — o quasi — sulla graziosa testa.