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i divoratori 197


Ma la dolce giovine donna parlava: «Posso fare qualche cosa per voi?»

Io dissi: «Sì.»

«Denari?» chiese lei.

«Sì.»

«Quanto vi occorre?»

«Cinque dollari,» dissi io.

Essa sorrise. «Così poco? Sarei lieta di fare di più per un’amica di Hugo Wolff.»

Uscì dalla stanza chiudendo la porta dietro di sè. Mi lasciò sola nel suo magnifico salone; coi miei abiti dimessi, col mio cappello di paglia nero, colla mia necessità di cinque dollari mi chiuse in quella sala piena di ornamenti d’oro e d’argento, di cornici ingemmate e ninnoli di valore inestimabile. In un angolo v’era una libreria aperta, tutti i volumi rilegati in cuoio rosso con lettere d’oro. Guardai. Erano poeti tedeschi: Lenau, Uhland, Heinrich Heine... E poi Rossetti e Mrs Browning; e un volume della meravigliosa Lawrence Hope. E più in là vidi le «Odi Barbare»; e vicino a loro il mio volume di versi... il mio nome in oro sul cuoio rosso!...

Mi coprii il viso colle mani e piansi.

Dopo pochi momenti essa era tornata, tenendo nella mano una moneta d’oro di venti dollari.

«Ecco, per porte-bonheur!» disse; e, nel porgermela, il delicato viso si soffuse di rossore. «E non c’è altro ch’io possa fare per voi?»

Io feci cenno di sì. Le lagrime mi impedivano di parlare, ma guardai il pianoforte.

Essa sorrise, e subito sedette davanti alla tastiera.

E cantò. Cantò per me.

Tutta la dolcezza e tutto il fervore che Dio le aveva versato nella divina voce, essa lo mise nel suo canto per me, sconosciuta, che non vedrebbe mai più, venuta da chi sa dove, a domandarle la carità.