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196 | annie vivanti |
bianca, e suonai il campanello. Immediatamente la porta fu aperta da un domestico in sontuosa livrea.
«Desidero parlare colla signora che canta», dissi.
«Eh?» disse l’uomo squadrandomi. Vidi che mi credeva una mendicante e che stava per mandarmi via.
«Ditele, ditele in fretta», aggiunsi, «che... che Hugo Wolff mi ha detto che potevo venire.»
Certo qualche cosa nel mio viso — oh mamma! nel mio disperato viso — toccò una corda umana in quel pomposo automa.
Andò diritto alla porta del salone, bussò piano, ed entrò a portare il mio messaggio.
Sulla tavola dell’anticamera era un immenso canestro dorato, pieno di gigli pasquali.
La musica tacque, e quasi subito apparve sulla soglia una signora. Era giovanissima — poteva avere pochi anni più di me — era bella, e vestita di panno color d’ametista. Mi guardò curiosamente; poi disse, improvvisa:
«Volete entrare?»
La seguii nella vasta sala sfarzosa. Dalla parete «La Bella» del Tiziano mi guardava blandamente d’in fra le palpebre arrossate.
«Che cos’era quel messaggio che mi mandaste?» chiese la giovane signora, con la graziosa testa un po’ inclinata sull’omero. «Non ho capito bene...»
Non avevo quasi voce. «Ho detto»... balbettai, «ho detto che Hugo Wolff mi invitava ad entrare. Vi ho sentito cantare la sua romanza».
Essa rise. Poi disse: «Siete dunque musicista?»
Crollai il capo. Ebbi per un istante l’idea di narrarle la Storia del Lupo. Poi temetti che potesse conoscere il mio nome, e forse parlarne con gli italiani di New York. E l’Italo-Americano scriverebbe un articolo, e il Corriere della Sera a Milano lo riprodurrebbe...