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Ai pensatori de la Grecia eguali
credanvi pur le femminette indòtte,
e ammirino le spurie opre immortali
ricopiate da voi, non giá prodotte.
Ma poca nebbia che dal monte cali
vi coprirá di sempiterna notte,
e fia che Stige limacciosa e torba
con la vii plebe il vostro nome assorba.
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Lasciamo, Elisa, nel palustre campo
E ignara sussurrar turba mal saggia.
Ecco d’un’orma gloriosa io stampo
la non concessa altrui rupe selvaggia.
Guardami in volto. O qual sovrano lampo
divinamente le mie chiome irraggia!
Piú non ho di mortai sembianza alcuna
e torno ad obliar volgo e fortuna.
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Apollo stesso, Apolline m’incalza,
e l’entusiasmo a flagellarmi prende.
Elisa, Elisa, da l’aonia balza
qual fatidico spirto in me discende?
Volgiti a destra; un platano s’innalza:
stacca quell’arpa che dai rami pende.
Corinna l’ebbe e il gran cantor tebano
due volte provocò quell’arpa invano.
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Ella si volge e le odorate braccia
a la novella dea l’albero inchina:
ve’ come lieta e scintillante in faccia
risveglia il plettro a l’armonia divina?
Move la bella e in su la verde traccia
spunta la rosa or bianca or porporina.
E al vivido poter del suono etrusco
su le grotte febee rinverde il musco.
I. Vittorelli, Poesie.
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