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Intenerito a l’armonia novella:
— Qual fora la mia gloria appo gli dèi, —
Amor gridò, — se tenera donzella
tentar sapesse i numeri febei?
Vincerebbe in dolcezza Elisa bella
le poma d’aracinto e i favi iblei,
e in un istante voleriane il grido
da l’adriano mare al mar d’Abido. —
5
Poi con un volo vespertino e fausto
scherzevolmente a lato il dio mi piomba,
e sciama: — Se d’invidia al morso infausto
il tuo plettro gentil mai non soccomba,
né manchi a Febo placido olocausto
d’anfrisio lauro o di timbrea colomba,
vanne ad Elisa e con l’esperta destra
a percoter la cetra or Pammaestra. —
6
Ciò detto appena, in compagnia del nume
dal frondifero giogo io scendo al basso:
meco ei parlava e di cangiante lume
dal fianco gli pendea l’eneo turcasso;
indi a guidarti sul cirreo cacume,
Elisa avventurosa, io movo il passo.
Né dubitar, ché a la diffidi meta
poggiai sin da fanciullo: io son poeta.
7
Colá per fresco intemerato alloro,
per biondo crine e per celeste canto
la decima sarai del vergili coro,
e avrai di letterata il chiaro vanto.
Mal taluna ch’ai fuso ed al lavoro
per decreto del ciel nacque soltanto,
molle al parlar letteratura affetta,
e teologa poi vuol esser detta.