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V

IL FARNETICO

POEMETTO

1

Né piú stravolto babbaccion superbo,
né piú stucchevol ciurmador procace
di quel che in niente effigiato io serbo
non modellò Natura, e l’abbia in pace.
Donami, o Febo, de le rime il nerbo,
mentre i costumi suoi ritrar mi piace;
e avran di Cirra le spelonche e i tufi
simile abbozzo da spaurirne i gufi.

2

Costui di verseggiare ha in corpo il baco
e giá si crede un poeton solenne:
dice che spesso nel castalio laco
egli diguazza l’ ispide cotenne,
e di fumanti antitesi ubriaco
vanta nel suo cervello estro perenne:
di cavolo selvaggio orna la chioma,
sfida le muse e Turgido si noma.

3

Giá la titania innamorata dea
vermiglia e linda incominciava a farse,
quand’ecco su le piume, ove giacea,
mirabil ombra a Turgido comparse.

Gran cetera di bronzo in mano avea,
stralunato il guardar, le chiome sparse,
ambe le guancie tumefatte e calde
e pieno il manto di colori e falde.