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Indi a Minerva: — O figlia, in questo giorno
di vigilar sui topi io ti comando,
che al simulacro tuo danzano intorno
le vittime del tertipio ognor cibando.

— Io no, padre, ché troppo m’ irritorno —
la dea sciamò — sacrileghi guastando
le offerte mie corone, e per averne
poc’olio da succiar, fin le lucerne.

37

Ma di costoro avvien che piú mi doglia
e piú mi crucci e mi lamenti assai,
poiché mi foracchiar la bella spoglia
che di stame prestatomi filai.

Sen venne il cucitor a la mia soglia
e il pattovito ancor non gli sborsai,
anzi l’imbroglio di pagar la trama
gir sovente mi fa pensosa e grama.

38

Né i ranocchi da me soccorso avranno,
che dopo lungo militar disagio
in su le sponde, ove i loquaci stanno,
di dormicchiare mi negaron l’agio:
anzi nel capo un doloroso affanno
mi suscitò quel gracidar malvagio;
né addormentai se il coronato augello
non salutasse in pria l’albor novello.

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Nessuno adunque dai celesti campi
discenda e i topi od i ranocchi affronte,
ché piagato non resti or che i duo campi
sono a le strette per venire a Tonte.

Par che ciascun di tal furore avvampi,
che s’anche un nume si vedesse a fronte,
Paste non piegheria: miriam da l’alto,
o divi, con piacer l’orrido assalto. —