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Non marzia tuba o bellico liuto
fia duopo a ravvivar la soldatesca,
però che il bravo marescial nasuto
con altro suono accenderá la tresca:
ed un solo precipite starnuto
che da le nari furibonde gli esca,
manderá quel fragor che in alto romba
a lo scoppiar di moscovita bomba.
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Che importa a me, se ne Pobblio sepulte
giaccion le antiche macchine murali,
né ricordansi arieti e catapulte
fuor che ne’ ranci trapassati annali?
Stiansene pure eternamente occulte,
ch’io non invidio giá macchine tali,
poiché da si gran naso appena tócche
precipitar vedrai castella e ròcche. —
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Volea piú dir, ma l’interruppe Giove:
— Sempre litigi, o capitan bravaccio;
né sei tranquillo un sol momento, dove
non si schiacci una gamba o rompa un braccio.
Io vo’ che un naso tal s’occupi altrove,
e quinci al biondo Apollo un don ne faccio:
nasca poeta e fatto adulto canti
su le chiavi febee del naso i vanti. —
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Scendete adunque dal paterno colle,
abitatrici ingenue del Parnaso,
che or or su la poetica bimolle
le varie lodi io tenterò del naso.
Giá sento a brulicarmi ossa e midolle,
giá balzo in groppa al volator Pegáso:
egli calcitra, sbuffa, ed io frattanto
ai sonori nitriti accordo il canto.
I. Vittorelli, Poesie.
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