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Cresceva l’opra, ma la sua fattura
Non apparia né singoiar né strana.
Pensosa adunque e tacita Natura
volge gran cose ne la mente arcana.
Lo scrigno apre de’ nasi, e quinci fura
un bel nason di sagoma romana;
al lavoro lo appicca e un grido scioglie:
— Costui — dicendo — il piú bel fior ne coglie. —
5
Poi move il passo a la celeste corte
per farne bella e gloriosa mostra:
accorre ognun su le azzurrine porte
e Giove appieno il suo stupor dimostra.
Sentesi un riso e un mormorio si forte
che tutta introna la superba chiostra;
e il buon Saturno, mentre il passo affretta,
perde gli occhiali e rompe la brachetta.
6
Veduto appena l’inclito lavoro,
— A me — Febo sciamò — quest’uom si debbe.
Tal era il sulmonese al secol d’oro
che al fonte aganippeo sovente bebbe.
Quanto superbo de le Muse il coro!
quanto fastoso l’Elicona andrebbe!
che in pari alunno mireriano accolto
del gran vate Nason l’amabil volto. —
7
Allor Gradivo impaziente e fiero:
— Costui — gridò — non mi par nato ai carmi,
e quel nason terrifico e guerriero
ben può, Giove immortai, ragione farmi.
Sotto i vessilli suoi confido e spero
che nuova gloria acquisteranno l’armi,
qualor cinto vedran d’elmo e lorica
un altro guerreggiar Publio Nasica.