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Ei siegue intanto e gii esteri capricci
ne la sua clama di copiar procura.
Una corona di capei posticci
tutto adempie l’error de la natura;
poi saggiamente i veri e i compri ricci
con ritorti ferruzzi ei rassicura,
onde scansarle ciò che un tempo avvenne
a la cornacchia da le finte penne.
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Anzi di quando in quando, affin che possa
resister piú la macchina sublime
contro qualunque impetuosa scossa
che minacciasse oltraggio a l’alte cime,
un pettine sottil d’ottone o d’ossa
le sovrapposte boccole comprime;
oppur, come a taluna è meglio in grado,
vermiglia fascia di legger zendado.
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O quanta cera su quel crine affalda!
oh come di bel nuovo e l’unge e ammolla!
Guai se l’opimo stucco il sol riscalda,
ché la pomata si risolve in colla;
e gocciolando liquida e mal salda,
penetra de la diva ogni midolla:
né a purgarla varran «Senna, Albja, Era, Ebro,
non Tesili, Po, Varo, Arno, Adige e Tebro» (*).
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Api ingegnose, che spiegando Pali
su fresco prato o sovra un rio d’argento,
somministraste agli aurei di frugali
col mel soave l’unico alimento,
voi n’andrete piú chiare ed immortali
per le manteche a cento etadi e cento;
poiché obbligarvi parrucchieri e dame
altro ben è che satollar la fame.
(1) Petrarca, sonetto ex vi.
I. Vittorelli, Poesie.
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