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XXXIV
IL LAMENTO PASTORALE — PER MONACA
IDILLIO
Da la cheta onda eritrea
stava il giorno per uscir,
in cui Fillide volea
se medesma al tempio offrir.
Rassembrava afflitta e mesta
ogni siepe, ogni arboscel,
e gemea per la foresta
un pietoso venticel.
Non belavano le agnelle
di rimpetto ai nuovi albor,
e le amiche pastorelle
eran piene di dolor.
Sotto l’alte ombrose chiome
di quell’acero montan,
ove Fille il suo bel nome
disegnò di propria man;
in sul rompere de l’alba
giunse Eurilla a tardo piè;
quinci Clori e quinci Idalba
sospirose, ahi, tutte e tre.
Non sapeano i loro occhietti
dispiccarsi dal terren:
nel tumulto degli affetti
chi le regge o le sostien?
Ma giá l’alba in ciel dispare,
giá comincia il nuovo di.
Guarda Eurilla verso il mare,
e prorompe alfin cosi:
— Ecco Febo che al sembiante
per tristezza un vel si fa.
Io ti perdo in questo istante,
o dolcissima metá.