Pagina:Vita nuova.djvu/107


edizioni cvii

l’editore: il che talvolta è anche riuscito a danno del testo. Ad es., in XXIX 3 il Witte mostra di credere che i testi M, N, W e B leggano senza numero altro, per se, e così pone infatti, sul loro fondamento, nel testo: se non che la lezione concorde di quei testi è invece senza numero altro alcuno, per se, ed è veramente la genuina.

Parve al Witte necessario dare il nome di capitoli alle distinzioni introdotte dal Torri. Questi le aveva chiamate paragrafi, deducendo il vocabolo dalla fine del capo II «verrò a quelle parole le quali sono scritte nella mia memoria sotto maggiori paragrafi». Ma il Witte oppone che Dante nella Monarchia e nel Convivio chiama ‘capitoli’ le sottodivisioni dei libri ossia dei trattati; osserva che ‘capitoli’ furon detti da non pochi antichi anche i canti della Divina Commedia; «e non si vede» — conclude — «perchè l’autore dovesse aver scelto pel presente libretto, il più semplice di tutti i suoi componimenti, un altro termine, termine che ricorda un po’ troppo la pedanteria degli Scolastici». Il vero è che Dante per il presente libretto non ha scelto il termine nè di capitoli nè di paragrafi, perchè divisioni sistematiche non ne ha poste, e le aggiungiamo noi nei margini per comodo di citazione; ma poichè immaginava distinzione di paragrafi nel libro della memoria, non vedo perchè non possiamo, anzi non dobbiamo, adottare lo stesso termine (fosse pur più pedantesco di capitoli, che non mi pare) per le divisioni che paiono da farsi nella Vita Nuova, che secondo l’autore è un ‘assembramento’, una copia di quel libro (I e II 10). Arbitrario è veramente inserire, come il Witte ha fatto, per entro il testo quelle dizioni di capitolo I, capitolo II, ecc., quasi che Dante avesse lasciato sì precisa distinzione di parti nella sua opera.

Un’altra, dannosa, innovazione fu quella di mutare la numerazione di essi paragrafi o capitoli proposta dal Torri. «Considerando» — scrive il Witte — «che nel cap. 29 [XXVIII 2] l’autore dice: ‘ciò non è del presente proposito, se volemo guardare il proemio che precede questo libello’, non si è creduto dover far entrare questo proemio nella numerazione dei capitoli». E per questo vano scrupolo, che fortunatamente non ebbe poi nell’edizione della Monarchia, dove il proemio di ciascun libro è segnato come primo capitolo, portò il disordine in una divisione tutta estrinseca, la cui utilità dipende dal rimanere inalterata. Meno male che, non volendo lo stesso Witte allontanarsi «troppo dai numeri, sull’esempio del Torri, ricevuti in tutte le edizioni moderne», il paragrafo 3 di esse fu da lui diviso in due capitoli, in modo che il terzo comprende esclusivamente la prima visione. Così la differenza fra la numerazione del Witte e quella del Torri si limita ai § I e II e ai commi 1 e 2 del III, che nella stampa wittiana si chiamano proemio, e capitolo I e II.