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dal primo, era quasi per pregare que’ disprezzatori accigliati, di voler trapassare il presente capitolo: se non che, noi concede Dante stesso, il quale scrisse dell’amor suo un libello giovanile; e protestò in fine, aver quindi avuto il suo primo pensiero, quindi prese le mosse all’opera immortale, che ei proseguì con crescente affetto fino ali’ultimo de’suoi giorni. Rinuncino, dunque, a un tratto a intender la vita e la divina opera di Dante tutti coloro che non vogliano ammettere del pari que’duo gran motori dell’ingegno e dell’attività di lui, come di tanti altri; l’ardore politico, e l’affetto di amore. Coloro poi,che abbiano con esso tanta dipendenza d’ingegno o tanta comunanza d’affetti da poter compatire alle passioni o debolezze di lui, non isdegneranno, spero, di scendere ai particolari in che egli tanto si compiacque. E n’avranno esempio non di libidine né di languori, ma di operosità e di grandezza.
Chi facesse una storia dell’amore in Italia, farebbe forse la più evidente che si possa, de’ costumi de’ varii secoli di essa. Basterebbero i fatti di Rosmunda e di Romilda a mostrare la nativa ferocia de’ Longobardi; come quelli di Gundeberga e di Teodora,