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352 | CAPO DECIMOTERZO |
così gittò molti ferramenti. Il fabbro, voltosi con un atto bestiale, dice: Che diavol fate voi? Siete voi impazzato?— Dice Dante: E tu che fai? — Io l'arte mia, dice il fabbro, e voi guastale le mie masserizie gettandole per la strada. — Dice Dante: Se tu non vuogli, che io guasti le cose tue non guastar le mie. — Disse il fabbro: Oh che vi guasto io? — Disse Dante: Tu canti il libro e non lo dì com'io lo feci: io non ho altr’arte, e tu me la guasti. Il fabbro gonfiato, non sapendo rispondere, raccoglie le cose, e torna al suo lavorio; e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancilotto, e lasciò stare il Dante1 .
Un'altra volta, andandosi Dante per la città di Firenze, e portando, come allora s’usava, la gorgiera e la bracciajuola, scontrò un asinajo che aveva innanzi certe some di spazzatura, e andava dietro cantando il libro di Dante, e quando avea cantato un pezzo, toccava l’asino e diceva arri. Dante gli diede con la bracciajuola una grande batacchiata sulle spalle, dicendo: cotest’arri non vi mis'io. Co-
- ↑ Fr. Sacch. Nov. CXIV