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IV. di questa edizione | lxxv |
di gran lunga più esatta, e la nostra fatica conseguentemente
ci sarebbe riuscita meno ingrata. Il guaio è che quel dio, che si agitava in lui quando faceva il filosofo o lo storico dalle grandi linee, non lo abbandonava nemmeno quando, scendendo parecchi gradini, si dava a far l’erudito. Se per caso si poneva a leggere un libro, anche il più frivolo e insulso, finiva sempre col trovare in un periodo, in una frase, in una parola, un addentellato con la sua Estetica, con la sua Morale, con i suoi canoni di ermeneutica storica. Bastava ciò perchè egli si suggestionasse e perchè quel libro acquistasse agli occhi suoi contenuto e valore assai diversi (se non a dirittura opposti) dalla realtà.
A questo difetto originario, che era tale da rovinargli tutte le citazioni, s’aggiunga che il Vico, nonché esser dotato da madre natura d’un amore almeno platonico per la diligenza e per l’esattezza, nutriva per queste due virtù erudite il più sovrano disprezzo. «La diligenza — egli dice1 — dee perdersi nel lavorare d’intorno ad argomenti c’hanno della grandezza, perocch’ella è una minuta e, perchè minuta, anco tarda virtù». E circa l’esattezza, pochi uomini hanno sofferto quel che si dice «malattia dell’inesattezza» in grado così acuto. Credevamo di aver altra volta2 additato un esempio tipico in un luogo dell’edizione del 17303 (poi corretto in CMA2), in cui il Vico, volendo esporre l’argomento del primo libro dell’Iliade, lui che s’era torturato una vita intera intorno alla questione omerica, c’ informa che Achille «per un puntiglio ingiusto non acconsente di restituirsi Criseide