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lxxiv | introduzione dell’editore |
una le arbitrarie etimologie e le non meno arbitrarie interpetrazioni che il filosofo napoletano dava di questo o
quel mito; e ancora meno c’è venuto in mente (cosa che
sarebbe stata di pessimo gusto) di contrapporre a una derivazione etimologica o a una ricostruzione mitologica vichiana quelle che oggi godono maggior favore, e che
forse (ci si perdoni il nostro scetticismo in codesta materia), non ostante gl’innegabili progressi della filologia
comparata, non hanno talvolta più solidi fondamenti di
quelle escogitate dalla fervida fantasia di Giambattista
Vico.
Che anche se limitata a questi tre punti, la nostra indagine
dovesse riuscire tutt’altro che agevole, è cosa che chiunque abbia un po’ di pratica con lavori siffatti, può facilmente immaginare.
Il Vico era uomo di vasta cultura; assai disordinata
e frammentaria, se si vuole, ma vasta. Aveva letto, da
adolescente nella botteguccia di libraio del padre, da giovane
nel castello di Vatolla, e diventato uomo maturo nella biblioteca dei Gerolamini, un mondo di libri (talvolta
rari e curiosi) intorno ai più diversi argomenti: teologia, filosofia, storia, archeologia, letteratura, giurisprudenza, fisica, medicina, numismatica e, andando giù giù, perfino astrologia e araldica. La sua conoscenza, specialmente
in poetica, come allora si diceva, e in linguistica, dati i tempi in cui viveva, non poteva essere più piena. Le tracce di tutte queste letture s’incontrano a ogni passo nella Scienza nuova che tra i grandi libri filosofici è forse quello che si presenta maggiormente armato da un formidabile apparato erudito.
Se cotanta sciupata erudizione fosse restata nella mente del Vico totalmente separata (come è in effetto) da quelle che sono realmente le sue grandi idee e le sue grandi scoperte, non v’ha dubbio che essa sarebbe stata