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lii introduzione dell’editore

da quella che egli suppone, o corrispondente soltanto a metà». E vero che il Weber ebbe più di mira l’additare le fonti classiche che quelle medievali e moderne, delle quali trascurò parecchie; è vero che le sue note (quantunque l’avvertenza da lui fatta possa indurre a credere il contrario) per lo più si limitano a indicare sommariamente il luogo cui il Vico si voleva riferire, senza precisare se il testo vichiano corrisponda effettivamente al passo citato; è vero ancora che non mancano citazioni inesatte di seconda mano; è vero infine che il Weber di regola non appose alcuna nota quando la ricerca da compiere sarebbe stata troppo lunga e complicata: ma tutto ciò non toglie che il suo eccellente lavoro sia stato quello di cui abbiamo potuto maggiormente giovarci, e che a esso andiamo debitori d’aver risparmiato almeno un buon quinto della nostra fatica.

Sarebbe da credere che una traduzione preparata con tanta diligenza contribuisse a rendere popolare il Vico in Germania, e procurasse a chi aveva saputo condurla a termine quella fama che egli si era meritata per tanti rispetti. Viceversa, essa passò quasi inosservata1, e, cosa assai più strana, quel pochissimo che si sa tuttora del Vico, tra la maggioranza delle persone colte, nella patria del Kant e dell’Hegel, è dovuto, più che ad altro, a una traduzione francese della Scienza nuova; la quale, tanto inferiore a quella del Weber, godè, per una delle bizzarrie del destino, reputazione europea, e anzi fu la prima a rivelare in modo cospicuo nel mondo degli studi quale ignorato precursore aveva avuto l’Italia in Giambattista



  1. Soli a parlarne furono la Belgioioso nella prefaz. alla sua traduz. più oltre cit., pp. cxviii-ix, il Müller nella pref. alla sua traduz. del DU, p. 31 e il Cauer nel Deutsches Museum del 1851, p. 261. Cfr. Croce, Bibliogr., pp. 6 e 73.