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i. struttura esterna della «scienza nuova» | xiii |
gno normale e di mente chiara, con un po’ di pratica dello scrivere, riesce facilmente a conseguire. Tali per l’appunto le quattro cose a cui egli tenne sempre fiso
l’occhio, e che talvolta s’illuse perfino d’aver mirabilmente
conseguito: vale a dire la perspicuità, la concisione, l’ordine matematico e l’eleganza o, com’egli la chiamava, la «sfoggiatezza» di linguaggio.
«Scienza nuova» e «lucidezza» sembrano termini quasi antitetici, tanto quell’opera appare, a chi vi si accosti per la prima volta con religioso e pavido rispetto, oscura, profonda e nebulosa. E invero, come poteva raggiungere la perspicuità un filosofo, il quale, appunto perchè scopritore di verità profondamente originali, non riusciva ad avere idee molto chiare, e ora vedeva, ora intravedeva, ora prevedeva? Come poteva esser lucida l’esposizione di un sistema filosofico, fondato tutto su di un colossale errore (errore degno del grand’uomo che lo commise, e quindi pregno di verità altissime); vale a dire sul continuo fraintendimento tra la storia ideale eterna, che non è altro se non filosofìa dello spirito, la storia effettiva dell’umanità e un’empirica scienza sociale?
Di siffatta oscurezza il Vico era il primo ad accorgersi; e anche se non se ne fosse accorto, gli avrebbero bene aperti gli occhi i suoi contemporanei, avversari o ammiratori che fossero: gli uni proclamandolo pazzo1 e stampandogli su per le riviste che la sua opera era stata accolta dagl’italiani con maggior tedio che profitto2; gli altri dicendogli (e credevano di fargli un complimento) che la commemorazione della Cimini valeva assai più della Scienza nuova3. Talvolta egli tentava di ribellarsi contro