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idea dell’opera 51


    sien tolti traile nazioni i matrimoni solenni, che appo tutte con divine cerimonie si contraggono, e si celebrino il concubinato e ’l puttanesimo. — Il fascio romano sia sciolto, dissipato e disperso, e spenta ogni moral comandata dalle religioni con l’annientamento di esse, spenta ogni disciplina iconomica col dissolvimento de’ matrimoni, perisca affatto la dottrina politica, onde vadano a dissolversi tutti gl’imperi civili. — La statova d’Omero s’atterri, perchè i poeti fondarono con la religione a tutti i gentili l’umanità. — La tavola degli alfabeti giacciasi infranta nel suolo, perchè la scienza delle lingue con le quali parlano le religioni e le leggi essa è quella che le conserva. — L’urna ceneraria dentro le selve porti iscritto: «Lemurum fabula», e ’l dente dell’aratro abbia spuntata la punta (o tolta l’universal credenza dell’immortalità dell’anima, lasciandosi i cadaveri inseppolti sopra la terra, s’abbandoni la coltivazione de’ campi non che si disabitino le città), e ’l timone (geroglifico degli uomini empi senza niun’umana lingua e costume) si riuscivi ne’ boschi (e ritorni la ferina comunione delle cose e delle donne, le quali si debbano gli uomini appropiare con la violenza e col sangue).
    Il molto finora detto si è per facilitarti, o benigno leggitore, la lezion di quest’opera. Mi rimane or pochissimo a dire per priegarti a giudicarne benignamente. — Perocché dei sapere che quell’utilissimo avviso che Dionigi Longino, riverito da tutti per lo principe de’ critici, dà agli oratori:— che, per far orazioni sublimi, loro bisogna proponersi l’eternità della fama (e per ciò conseguire, ne dà loro due pratiche), — noi, da’ lavori dell’eloquenza a tutti di qualsivoglia scienza innalzando, nel meditar quest’opera abbiamo sempre avuto dinanzi gli occhi. La prima pratica è stata: — come riceverebbono queste cose ch’io medito un Platone, un Varrone, un Quinto Muzio Scevola? — La seconda pratica è stata quella: — come riceverà queste cose ch’io scrivo la posterità? — Ancora per la stima ch’io debbo fare di te, m’ho prefisso per giudici tali uomini, i quali, per tanto cangiar di età, di nazioni, di lingue, di costumi e mode e gusti di sapere, non sono punto scemati dal credito, il primo di divino filosofo, il secondo del più dotto filologo de’ Romani, il terzo di sappientissimo giureconsulto che come oracolo venerarono i Crassi, i Marcantoni, i Sulpizi, i Cesari, i Ciceroni.
    Oltracciò, dei far questo conto: — che tal opera fussesi disotterata poc’anzi in una città rovinata da ben mille anni, che porta cancellato affatto il nome dell’autore; — e vedi che non forse questo mio tempo, questa mia vita, questo tal mio nome t’inducano a farne un giudizio men che benigno. E quel motto: «quem ullum tanta superbia