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della custodia delle leggi 103


che da Tacito funne detta «finis omnis aequi iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertá (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a’ quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sopra dimostra, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest’istesso da Livio fu ella detta «fons omnis aequi iuris», perch’ella dovett’esser il fonte di tutta l’interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell’ateniese, tuttodí comandava delle leggi singolari, perché d’universali ella non è capace. Al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch’era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le Quistioni perpetue; ma, rinnunziata ch’ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com’i politici l’avvertiscono, non vi è via piú spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti principi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertá popolare si custodirono sí severamente le formole dell’azioni, che vi bisognò tutta l’eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene », perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l’eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d’Aulo Cecina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantino cancellò affatto le formole, ch’ogni motivo particolar d’equitá fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani le umane menti sono docili a riconoscere l’equitá naturale. Cosí, da quel capo della legge delle XII Tavole: «Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristocrazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto, nella libertá popolare, si giunse a tanto sotto le monarchie, ch’i principi non fann’altro che concedere privilegi, de’ quali, conceduti con merito, non vi è cosa piú conforme alla naturai equitá. Anzi tutte l’eccezioni, ch’oggi si