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322 libro secondo - sezione quinta - capo ottavo


nudo, legato al mio cocchio, per tre giorni d’intorno alle mura di Troia — siccome fece, — e finalmente ti darò a mangiare a’ miei cani da caccia; — lo che arebbe pur fatto, se l’infelice padre Priamo non fusse venuto da essolui a riscattarne il cadavere. D’intorno alla gloria, egli per un privato dolore (perocché Agamennone gli aveva tolto a torto la sua Briseide) se ne richiama offeso con gli uomini e con gli dèi; e fanne querela a Giove d’essere riposto in onore, ritira dall’esercito alleato le sue genti e dalla comune armata le propie navi, e soffre ch’Ettorre faccia scempio della Grecia, e, contro il dettame della pietá che si deve alla patria, si ostina di vendicare una privata sua offesa con la rovina di tutta la sua nazione; anzi non si vergogna di rallegrarsi con Patroclo delle straggi ch’Ettorre fa de’ suoi greci, e col medesimo (ch’è molto piu), colui che portava ne’ suoi talloni i fati di Troia, fa quello indegnissimo voto: che ’n quella guerra morissero tutti, e troiani e greci, ed essi due soli ne rimanessero vivi. D’intorno alla terza, egli nell’inferno, domandato da Ulisse come vi stava volentieri, risponde che vorrebbe piú tosto, vivo, essere un vilissimo schiavo. Ecco l’eroe che Omero con l’aggiunto perpetuo d’«irreprensibile» canta a’ greci popoli in esemplo dell’eroica virtú! Il qual aggiunto, acciocché Omero faccia profitto con l’insegnar dilettando (lo che debbon far i poeti), non si può altrimente intendere che per un uomo orgoglioso, il qual or direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e si predica la virtú puntigliosa, nella quale a’ tempi barbari ritornati tutta la loro morale riponevano i duellisti, dalla quale uscirono le leggi superbe, gli ufizi altieri e le soddisfazioni vendicative de’ cavalieri erranti che cantano i romanzieri.

668Allo ’ncontro si rifletta al giuramento, che dice Aristotile, che giuravano gli eroi d’esser eterni nimici alla plebe. Si rifletta quindi sulla storia romana nel tempo della romana virtú, che Livio determina ne’ tempi della guerra con Pirro, a cui acclama con quel motto: «nulla aetas virtutum feracior», e noi (con Sallustio, appo sant’Agostino, De civitate Dei)