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254 a gino capponi.


Ma quando poi remoto dalla gente,
     Opra pensando di sottil lavoro,
     Nelle dolci fatiche della mente
     Al travaglio del cor cerco ristoro,
     Ecco assalirmi tutte di repente,
     Come d’insetti un nuvolo sonoro,
     Le rimembranze delle cose andate;
     E larve orrende di scherno atteggiate
          Azzuffarsi con meco ed io con loro.

Così tornata alla solinga stanza
     La vaga giovinetta in cui l’acuta
     Ebrïetà del suono e della danza
     Nè stanchezza nè sonno non attuta,
     Il fragor della festa e l’esultanza
     Le romba intorno ancor per l’aria muta,
     E il senso impresso de’ cari sembianti,
     E de’ lumi e de’ vortici festanti,
          In faticosa visïon si muta.

Come persona a cui ratto balena
     Subita cosa che d’oblïar teme,
     Così la penna afferro in quella piena
     Del caldo immaginar che dentro freme.
     Ma se sgorgando di difficil vena
     La parola e il pensier pugnano insieme,
     Io, di me stesso diffidando, poso
     Dal metro audace, e rimango pensoso,
          E l’angoscia d’un dubbio in cor mi geme.

Dunque su questo mare a cui ti fide
     Pericolando con sì poca vela,
     Il nembo sempre e la procella stride,
     E de’ sommersi il pianto e la querela?
     E mai non posa l’onda, e mai non ride
     L’aere, e il sol di perpetue ombre si vela?
     Di questa ardita e travagliata polve
     Che teco spira, e a Dio teco si volve,
          Altro che vizio a te non si rivela?