Ma quando poi remoto dalla gente,
Opra pensando di sottil lavoro,
Nelle dolci fatiche della mente
Al travaglio del cor cerco ristoro,
Ecco assalirmi tutte di repente,
Come d’insetti un nuvolo sonoro,
Le rimembranze delle cose andate;
E larve orrende di scherno atteggiate
Azzuffarsi con meco ed io con loro.
Così tornata alla solinga stanza
La vaga giovinetta in cui l’acuta
Ebrïetà del suono e della danza
Nè stanchezza nè sonno non attuta,
Il fragor della festa e l’esultanza
Le romba intorno ancor per l’aria muta,
E il senso impresso de’ cari sembianti,
E de’ lumi e de’ vortici festanti,
In faticosa visïon si muta.
Come persona a cui ratto balena
Subita cosa che d’oblïar teme,
Così la penna afferro in quella piena
Del caldo immaginar che dentro freme.
Ma se sgorgando di difficil vena
La parola e il pensier pugnano insieme,
Io, di me stesso diffidando, poso
Dal metro audace, e rimango pensoso,
E l’angoscia d’un dubbio in cor mi geme.
Dunque su questo mare a cui ti fide
Pericolando con sì poca vela,
Il nembo sempre e la procella stride,
E de’ sommersi il pianto e la querela?
E mai non posa l’onda, e mai non ride
L’aere, e il sol di perpetue ombre si vela?
Di questa ardita e travagliata polve
Che teco spira, e a Dio teco si volve,
Altro che vizio a te non si rivela?