Stanchi alla fine, e come accade spesso
D’uno che al gioco giochi anco il cervello,
Che invece di pigliarla con sè stesso
E’ se la piglia con questo e con quello,
Un dì che il Rivendugliolo avea messo
Fuori i fagotti e il solito zimbello,
Da sei gli sono addosso, e con molt’arte
L’attorniano, e lo traggono in disparte.
E dopo averlo strapazzato, e dette
Cose del fatto suo proprio da chiodi,
Gl’intuonaron minaccie maledette,
E che voleano il terno in tutti i modi.
Messa lì su quel subito alle strette
La volpe che maestra era di frodi,
Facendo l’imbrogliato e il mentecatto,
Te gli abbonì che non parve suo fatto.
Poi protestando, che del trattamento
Non facea caso e lo mandava a monte,
Accennò roba, parlò d’un portento,
La prese larga, te li tenne in ponte,
E finse di raccogliersi un momento,
E chiuse gli occhi, e si fregò la fronte,
E disse: attenti, che non diate poi
A me la colpa che si spetta a voi.
Bisognerebbe, quando il gallo canta
Sull’alba, o appena il sole è andato sotto,
Novanta ceci secchi, sulla pianta
Côrre, senz’esser visti o farne motto;
E dall’uno giù giù fino al novanta
Scriverci sopra i numeri del Lotto,
Con una tinta che non si cancella,
Fatta di pece e d’unto di padella.