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I BRINDISI.1



Mia cara amica,

Voi Milanesi siete assuefatti a vedere il carnevale che fa un buco nella quaresima e ruba otto giorni all’Indulto. Non so o non mi ricordo chi v’abbia data questa licenza; ma dev’essere stato di certo un Papa di buon umore e di maniche larghe. Noi, finite le maschere (almeno quelle di cartapesta), e rimanendoci addosso uno strascico di svagatezza, come rimane negli orecchi il suono dei violini dopo una festa di ballo, ci pigliamo a titolo di buon peso, e senza licenza dei superiori, il solo giorno delle ceneri, e tiriamo via a godere sino alla sera, come se il Mementomo non fosse stato detto a noi. Voi quegli otto giorni li chiamate il carnevalone, e noi quest’unico giornarello di soprappiù lo chiamiamo il carnevalino.

La sera del giovedì grasso del 1842, uno di quei tali che danno da mangiare per ozio, e per sentirsi lodare il cuoco, aveva invitati a cena da diciotto o venti, tutti capi bislacchi chi per un verso e chi per un altro, e tutti scontenti che il carnevale fosse lì lì per andarsene. V’erano nobili inverniciati di fresco e nobili un po’ intarlati; v’erano banchieri, avvocati, preti alla mano, insomma omni genere musicorum. Tra gli altri, non so come, era toccato un posto anche a due che pizzicavano di poeta, agli antipodi uno dall’altro, ma tutti e due portati allo stile arguto o faceto come vogliamo chiamarlo. Il padrone, sapendo l’indole delle bestie, per rimediare allo sproposito fatto d’invitarli insieme, pro bono pacis gli aveva collocati alle debite distanze. Il primo era un Abate, solito tenere la Bibbia accanto a Voltaire; buon compagnone, tagliato al dosso di tutti, nè Guelfo nè Ghibellino, dirotto al mondo, un maestro di casa nato e sputato. L’altro era un giovane nè acerbo nè maturo, una specie di cinico elegante, un viso tra il serio ed il burlesco, da tenere una gamba negli studii e una nella dissipazione e via discorrendo. La cena passò in discorsi sconnessi, in pettegolezzi, in lode al Bordeaux e ai

  1. Con questi due brindisi si pongono a confronto due generi opposti di poesia scherzosa, l’uno nato di licenza, l’altro di libertà; il primo falso, il secondo vero, o almeno più convenevole.