Era un tempo la notte. Allor che l’alba
Tingea di perla all’orizzonte il lembo,
Su me scendean le tenebre: caduto 25Dalle stellate altezze io lagrimava.
Or, come vedi, cecità mi fascia;
E la mia vita nebulosa un verno
Sconsolato sarebbe, ove sostegno
A’ dolenti miei dì Maria non fosse, 30Quell’angiol mio che tu scorgesti. Edipo
Io di gran sfinge decifrai l’enimma;
E questa dolce Antigone al mio fianco
Posero i cieli. Dal vicin convento
A me vien desïata, e non le grava 35L’estasi sante della cheta cella
Per me lasciar, mondano ancor.” Di pianto
Gli occhi velârsi all’ospite: la guancia
Declinò sulla palma e taciturno
Stette alcun tempo. Poi dal cor turbato 40Sospirando parlava: “E che rimane,
Tolta la luce, di giocondo in terra,
Se non l’amor? Che se contesa un giorno
A me pur fosse, nè le dolci tinte
Dell’aurora e del vespro, estiva rosa; 45Pascenti greggi, o la divina faccia
Dell’uom più non vedessi; astro nascoso
Sulle tenebre mie splenda l’amore
D’ingenua figlia che a Maria somigli.
Ma questa tua caligine è meriggio