Senza sonno i’ giacea sul dì novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello,
Ed io timido e cheto ed inesperto,
Ver lo balcone al buio protendea
L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,
La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;
La voce, ch’altro il fato, ahi, mi togliea.
Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E ’l core in forse a palpitar si mosse!
E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de’ cavai
E de le rote il fragorio s’intese;
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi;
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.
Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch’altro sarà, dicea, che ’l cor mi tocchi?
Amarissima allor la ricordanza
Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.