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sterminati ammassi di leggi e prescrizioni, ove si sminuzzano le minime differenze de’ casi e civili e criminali, niente si prescrive per la tortura. Se la legge adunque avesse risguardati questi tormenti come un mezzo per iscoprire la verità, non se ne sarebbe fatta una omissione in ambo i Codici del modo, de’ casi e delle riserve colle quali si dovesse adoperare. Concludo adunque dal silenzio stesso del corpo delle leggi, che la legge non considera la tortura come un mezzo per rintracciare la verità. Se poi il solo argomento negativo non sembrasse bastante a dimostrar questa verità, veggasi la legge 1, § 23, ff. De quaestionibus, ove ben lontano lo spirito delle leggi romane dal riguardare la tortura come un mezzo da rinvenire la verità, anzi vi si legge: «La tortura è un mezzo assai incerto e pericoloso per ricercare la verità, poichè molti colla robustezza e la pazienza superano il tormento e in nessun modo parlano; altri insofferenti mentiscono mille volte, anzichè resistere al dolore;» Quaestio res est fragilis et periculosa, et quae veritatem fallat. Nam plerique patientia, sive duritia tormentorum illa tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit; alii tanta sunt impatientia, ut quodvis mentiri, quam pati tormento velint. Così si esprime positivamente il Digesto, e tale era l’opinione de’ Romani, nostri legislatori e maestri, i quali conoscevano l’uso della tortura sopra gli schiavi, siccome vedremo poi. Dunque la legge non risguarda la tortura come un mezzo per la scoperta della verità.

Io però ho asserito di più, che non solamente la legge, ma nemmeno la pratica criminale considera la tortura per un mezzo d’avere la verità. Pare questo un paradosso, eppure io credo di poterlo evidentemente dimostrare.

Primieramente, se i dottori risguardassero la tortura come un mezzo per iscoprire la verità nei delitti, non escluderebbero sè medesimi dall’essere torturati, poichè è tale l’interesse dell’umana società che i delitti si scoprano, che nessuno può essere sottratto dai mezzi di scoprirli; in quella guisa che nessuno sottratto de’ dottori dalla pena di morte, esilio, ecc., ogni qual volta co’ suoi delitti l’abbia meritata. Io perdonerò se ciascun cerchi di rialzare il proprio mestiero, e non mi farà maraviglia che il Wesembeccio1 dica che i dottori sono per dignità eguali ai nobili e decurioni, e per meriti eguali ai militari: Doctores nobilibus et decurionibus dignitate, militibus autem meritis aequiparantur; ma non sarebbe perdonabile alcuno, che osasse dare alla propria facoltà una impunità nei delitti. Se adunque i nobili e i dottori sono privilegiati per la tortura, segno è che non viene essa dai criminalisti considerata come un mezzo per avere la verità.

  1. In Paratitl, num. 10