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sulla tortura. | 33 |
§. VII.
Come terminasse il processo delle unzioni pestifere.
Se volessi porre esattamente sott’occhio al lettore la scena degli orrori metodicamente praticati in quella occasione, dovrei trascrivere tutto il processo, dovrei inserire le torture fatte soffrire ai banchieri, ai loro scritturali ed altre civili persone; torture crudelissime, date per obbligarli a confessare, che dal loro banco si dava qualunque somma di danaro a chiunque, anche sconosciuto, purché nominasse D. Giovanni de Padilla; e danaro che si sborsava senza averne alcuna quitanza e senza scriversi partita ne’ loro libri; e tutte queste assurde proposizioni emanate dal forzato romanzo, che la insistenza degli spasimi fece concertare fra i miseri Piazza e Mora. Ma anche troppo è feroce il saggio che di sopra ne ho dato, e troppo funesti alla mente ed al cuore sono sì tristi oggetti. Dalla scena orribile che ho descritta si vede l’atroce fanatismo del giudice di circondurre con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri criminali, e portarlo alle estreme angosce, d’onde l’infelice si sarebbe sottratto con mille accuse contro sè medesimo, se per disgrazia gli si fosse presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si prodigò la tortura a molti innocenti: in somma tutto fu una scena d’orrore. È noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il barbiere Gian-Giacomo Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la Colonna infame), Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo, che si chiamava il Foresè, Francesco Manzone, Caterina Rozzana, e moltissimi altri; questi condotti su di un carro, tanagliati in piú parti, ebbero, strada facendo, tagliata la mano; poi rotte le ossa delle braccia e gambe, s’intralciarono vivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono perfine dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume. L’iscrizione posta al luogo della casa distrutta del Mora, così dice: