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PARTE PRIMA
COLLOQUIO TERZO
Sentenze rigorose ed ardite di un intelletto, che fra’ Romani vivendo
fu mansuetissimo, sulla ingiustizia delle imprese loro.
Mentre garriva la turba, a me parea udire il mormorio delle
fonti nel silenzio della notte. Ma sospese le parole, e richiamò
gli sguardi, una larva la quale con serena fronte s’inoltrava. Verso
cui immantenente accorsero e Tullio, e Cesare, e Bruto, ed Antonio
a lei tutti stendendo le braccia, e tutti pareano concordi nel
contento di rivederla. Il suo aspetto spirava dolcezza venerevole
e soave probitá di costumi. Erano calve le tempia, canuti i
capelli, gli occhi pietosi, la fronte calmata, le labbra liete. Quindi
con affettuoso contegno, temperato da urbana gravitá, abbracciava
le circostanti larve, e ciascuna cortesemente chiamava per
nome. E poiché furono soddisfatti questi primi uffizi di benevolenza,
esse rimasero alquanto nel silenzio precursore delle illustri
parole, e poi Bruto incominciò: — Fu al certo innocente la tua
vita privata, felice per grate consuetudini e per ozio tranquillo
delle Muse. Nel quale però fosti utile a molti con generosi uffizi
e beneficenze liberali. Quindi grato a tutti, e sospetto a niuna
fazione, potesti in cosí iniqui giorni vivere lunga e candida vita.
Pur mi duole che tal nocchiero, qual saresti stato nelle onde civili,
invece di scortarci in cosí avversa fortuna, si ricoverasse in porto,
da quello contemplando la patria sommergersi nel pelago delle
sue corruttele. —
Queste sentenze libere ed imperiose parea che giá fossero moleste alla moltitudine, perocché taluni accennavano a Bruto che non piú insistesse in quelle. Ma lo spettro, al quale erano dirette, cosí placido rispose: — Quando io avessi potuto sperare, tentando alcuna impresa generosa, di recare conforto alla patria, mi avresti veduto lanciarmi nel tempestoso mare delle sue vicende. Ma quella medesima opinione la quale io ebbi dell’inevitabile destino di Roma, ebbero, giá dodici lustri innanzi la morte mia,