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PARTE PRIMA
COLLOQUIO QUARTO
Antonio ed Ottaviano s’incolpano scambievolmente di crudeltá.
Catone e Cesare contendono per la impresa di Utica;
Bruto e Pomponio s’interpongono a conciliarli.
Ottaviano, fin qui tacito spettatore, allora proruppe: —
Anche sotterra, per uso antico, sempre maestra di pianto
lusinghiero, presumi d’ingannare le menti nostre, quantunque
sciolte dalle corporee illusioni? Ve’ coronata meretrice come
ragiona di amore con delicate e flebili sentenze! Dunque tu ardisci
or qui garrire con illustri concetti, la quale spegnesti il tuo
fratello Tolomeo, ed Arsinoe sorella tua, per non avere compagni
sul trono? —
A tali parole s’infiammò il volto di Antonio, e le sue labbra fremeano quasi leone prossimo a ruggire. Poi con irata voce esclamò: — O atroce ingegno, e come ardisci biasimare altrui di tal vizio nel quale fosti insuperabile, la crudeltá? Non sei tu quegli che ancora adolescente nel tuo consolato di sangue traesti di tua mano gli occhi a Q. Gallio pretore, la presenza del quale ti venne a noia per subitaneo furore? —
Ottaviano rispose con repressa ira: — Che narri? Non sei triunviro, e di me e di Lepido piú tristo promotore delle proscrizioni? Non rammenti ch’io teco ben due giorni disputai per salvare questo grande oratore M. Tullio, il quale avea piú volte salvata la patria con la sua eloquenza divina? Sanno tutte queste anime romane che l’odio di tal misfatto cadde sopra di te, il quale per necessaria, prima, ostinata, inespugnabile condizione di ogni concordia fra noi, ponesti la morte di tanto uomo. E quanto fosse il desiderio di conseguirla, ben si conobbe dalla feroce tua gioia quando pascesti i crudeli occhi con la vista delle sue membra palpitanti. Atroci derisioni, insulti abbominevoli, tripudi barbari furono i segni co’ quali accogliesti il teschio e le mani sue grondanti. Con qual crudele compiacenza non rimiravi appesa quella destra