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capitolo iii. 87

di questo incidente, io non vedo più Aubert da qualche giorno.

— Pure non ci lascia, rispose Geranda, i cui pensieri presero una tinta più dolce.

— E che fa egli, dunque?

— Lavora.

— Ah! esclamò il vecchio, egli lavora ad accomodare i miei orologi, non è vero; non vi riuscirà mai, non è una riparazione che occorre loro, ma una risurrezione.

Geranda stette silenziosa.

«Bisognerà ch’io sappia, aggiunse il vecchio, se fu ancora portato qualcuno di quegli orologi dannati fra i quali il diavolo ha gettato un’epidemia.

Dette queste parole, mastro Zaccaria cadde in un mutismo assoluto fino al momento in cui si trovò innanzi alla porta di casa, e per la prima volta dopo la sua convalescenza, intanto che Geranda tornava tristamente nella sua camera, egli scese nell’officina. Nel momento in cui passava la porta, uno dei molti orologi appesi al muro suonò le cinque ore. Ordinariamente le diverse sonerie di queste macchine, benissimo regolate, si facevano intendere insieme, e la loro concordanza rallegrava il cuore del vecchio; ma in quel giorno tutte tintinnarono le une dopo le altre, tanto che per un quarto d’ora l’orecchio fu assordato dai suoni successivi. Mastro Zaccaria soffriva molto, non poteva star fermo, andava dall’uno all’altro di quegli orologi e batteva loro il tempo come un direttore d’orchestra che non sia più padrone de’ suoi dipendenti. Quando l’ultimo suono si spense, la porta dell’officina si aprì, e mastro Zaccaria rabbrividì da capo a piedi vedendosi innanzi il vecchietto che lo guardò fisso e gli disse:

«Maestro, posso io trattenermi con voi alcuni istanti?

— Chi siete? domandò bruscamente l’orologiaio.

— Un confratello. Sono io che ho l’incarico di regolare il sole.

— Ah! siete voi che regolate il sole, replicò mastro Zaccaria senza batter ciglio; ebbene non ve ne faccio i miei complimenti, il vostro sole va male, e per trovarci d’accordo con lui, siamo costretti ora ad anticipare, ora a ritardare i nostri orologi.