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disse l’ingegnere, ma non eccitiamo il nostro nuovo compagno a parlare; quando vorrà, saremo pronti ad ascoltarlo.

Nei giorni che seguirono, l’incognito non proferì parola, e non lasciò, una sola volta il ricinto dell’altipiano. Egli lavorava la terra senza perdere un istante, senza nemmanco riposarsi, ma sempre in disparte. Nelle ore del pasto non risaliva al Palazzo di Granito, benchè gliene fosse stato fatto invito molte volte, e s’accontentava di mangiare qualche legume crudo. Venuta la notte egli non tornava alla camera che gli era stata assegnata, ma se ne stava là, sotto un gruppo d’alberi, e quando il tempo era brutto, si raggomitolava in qualche vano delle roccie. A questo modo egli viveva ancora come al tempo in cui non aveva altro riparo fuorchè le foreste dell’isola Tabor, ed essendo stata vana ogni insistenza per indurlo a mutar abitudini di vita, i coloni aspettarono con pazienza. Ma giungeva finalmente il momento in cui, imperiosamente e come involontariamente spinto dalla propria coscienza dovevano sfuggirgli terribili confessioni.

Il 10 novembre, verso le dieci pomeridiane, il momento in cui cominciava a farsi notte, l’incognito si presentò all’improvviso dinanzi ai coloni, i quali erano riuniti sotto la veranda. Gli brillavano gli occhi stranamente, tutta la sua persona aveva ripigliato l’aspetto feroce dei giorni cattivi.

Cyrus Smith ed i compagni furono come atterriti, vedendo che, sotto l’impero d’una terribile commozione, i suoi denti battevano come quelli d’uno che ha la febbre. Che aveva egli? La vista de’ suoi simili gli era dunque insopportabile? Non voleva più saperne di quella esistenza in compagnia onesta? Lo ripigliavano dunque la nostalgia e l’abbrutimento? Così si dovette credere udendolo uscire in queste frasi incoerenti: