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fare, tranne che condurlo a bordo del Bonaventura. Così fu fatto, e colà egli rimase sotto la guardia di Pencroff. Harbert e Gedeone Spilett ritornarono nell’isolotto per farvi le loro operazioni, ed alcune ore dopo ritornavano alla spiaggia portando gli utensili e le armi, una raccolta di semi mangerecci, alcuni capi di selvaggina e due coppie di porci; il tutto fu imbarcato, ed il Bonaventura si tenne pronto a levar l’ancora appena si facesse sentire la marea del domani.

Il prigioniero era stato collocato nella camera di prua, dov’egli rimase tranquillo, silenzioso, sordo e muto insieme.

Pencroff gli offrì da mangiare, ma egli respinse la carne cotta che gli fu presentata e che, senza dubbio, non gli conveniva più. Ed infatti, avendogli il marinajo mostrato una delle anitre che Harbert aveva ucciso, egli l’addentò con avidità bestiale e la divorò.

— Credete che si correggerà? chiese Pencroff crollando il capo.

— Forse, disse il reporter; non è possibile che le nostre cure finiscano coll’agire sopra di lui, poichè solo l’isolamento l’ha fatto com’è, ed ormai non sarà più solo.

— È un pezzo, senza dubbio, che il povero uomo è in questo stato! disse Harbert.

— Forse, rispose Gedeone Spilett.

— Che età può egli avere? chiese il giovinetto.

— È difficile determinarlo, rispose il reporter, poichè è impossibile vederne i lineamenti sotto la fitta barba che gli copre la faccia; ma non è più giovane, ed immagino che debba avere almeno cinquant’anni.

— Avete osservato, signor Spilett, come i suoi occhi sono profondamente incavati sotto l’orbita? domandò il giovinetto.

— Sì, Harbert, ma aggiungo che sono più umani di quello che si sarebbe tentati di credere all’aspetto della sua persona.