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rente di fiamme alla vetta degli alberi che non la corrente di lava ai loro piedi.

Accadde allora che gli animali, come impauriti, belve di ogni sorta, juguari, cinghiali, cabiais, kulas, selvaggine di pelo e di penna, si riparassero verso la Grazia e nell’acquitrino delle Tadorne al di là della via del porto Pallone. Ma troppo erano occupati del fatto loro i coloni, e non badarono neppure ai più formidabili di questi animali. Avevano d’altra parte abbandonato il Palazzo di Granito, senza nemmeno cercare rifugio nei Camini, e si accampavano sotto una tenda, presso alla foce della Grazia.

Ogni giorno Cyrus Smith e Gedeone Spilett salivano sull’altipiano di Lunga Vista; talvolta Harbert li accompagnava, ma non mai Pencroff, il quale non voleva vedere nel suo nuovo aspetto l’isola cotanto devastata.

Era uno spettacolo desolante invero.

Tutta la parte bassa dell’isola era ora denudata.

Un gruppo solo d’alberi verdi sorgeva all’est della penisola Serpentina. Qua e là si vedevano le smorfie di alcuni ceppi sramati ed anneriti.

Più orrido dell’acquitrino delle Tadorne era l’aspetto della foresta distrutta.

Qui l’invasione delle lave era stata completa, e dove un tempo crescevano quelle verzure ammirabili, il terreno non era più che un selvaggio cumulo di tufi vulcanici.

Le vallate del fiume della Cascata e della Grazia più non versavano alcuna goccia d’acqua, ed i coloni non avrebbero avuto modo di cavarsi la sete se il lago Grant fosse stato intieramente asciugato.

Ma per fortuna la sua sponda sud era stata rispettata e formava una specie di stagno contenente tutto quanto rimaneva d’acqua potabile nell’isola.

Verso il nord-ovest si disegnavano in aspre e vive creste i contrafforti del vulcano, che raffiguravano un artiglio gigantesco piantato nel suolo.