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l’isola, ed egli esaminava tutto con attenzione minuziosa. Ben altre traccie, oltre quelle degli animali, cercava egli nel più fitto di quegli ampi boschi, ma nulla mai di sospetto apparve agli occhi suoi. Top e Jup che lo accompagnavano, non lasciavano scorgere coi loro atti che vi avesse nulla di straordinario; eppure più d’una volta ancora il cane latrò all’orifizio di quel pozzo che l’ingegnere aveva esplorato senza frutto.

Fu a quel tempo che Gedeone Spilett, ajutato da Harbert, prese molte vedute delle parti più pittoresche dell’isola, per mezzo dell’apparecchio fotografico trovato nella cassa e di cui non si aveva fatto uso finora.

Codesto apparecchio, fornito d’un poderoso oggettivo, era completo: sostanze necessarie alla riproduzione fotografica, collodio per preparare la lastra di vetro, nitrato d’argento per renderla sensibile, iposolfato di soda per fissare la immagine ottenuta, cloruro d’ammonio per bagnare la carta destinata a dar la prova positiva, acetato di soda e cloruro d’oro per impregnar quest’ultima — non mancava nulla. Vi erano perfino le cartoline già preparate col cloruro, e prima di collocarlo nei telaj sulle prove negative, bastava bagnarle per alcuni minuti nel nitrato d’argento stemperato nell’acqua.

Il reporter ed il suo ajutante divennero in breve abili operatori, ed ottennero prove abbastanza belle di paesaggi, come a dire il panorama dell’isola, preso dall’altipiano di Lunga Vista col monte Franklin all’orizzonte, la foce della Grazia così pittorescamente incorniciata nelle sue roccie, la radura ed il ricinto addossato ai primi gioghi della montagna, tutto quel bizzarro contorno del capo Artiglio, della punta del Rottame, ecc.

I fotografi non dimenticarono di fare il ritratto a tutti gli abitanti dell’isola, nessuno eccettuato.

— Par d’essere in più, diceva Pencroff.