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r Fogg, gli disse con voce di cui cercava invano di mascherare l’emozione:
«Signore, è forza abbandonarmi! È per me che siete inseguiti! Per avermi salvata!»
Phileas Fogg si contentò di rispondere che ciò non era possibile. Inseguito per quell’affare del sutty! Inammissibile! In che modo i querelanti oserebbero presentarsi? Doveva esserci equivoco. Il signor Fogg aggiunse che, in tutti i casi, egli non avrebbe abbandonata la giovine donna e l’avrebbe condotta a Hong-Kong.
«Ma il battello parte a mezzogiorno! fece osservare Gambalesta.
— Prima di mezzogiorno saremo a bordo,» rispose semplicemente l’impassibile gentleman.
Ciò fu affermato così ricisamente, che Gambalesta non potè a meno di dire a sè stesso:
Diamine! è certo! prima di mezzogiorno saremo a bordo!» Ma non era rassicurato niente affatto.
Alle otto e mezzo la porta della camera si aprì. Il policeman riapparve ed introdusse i suoi prigionieri nella sala vicina. Era una sala d’udienza, ed un pubblico alquanto numeroso, composto di Europei e d’indigeni, ne occupava già il pretorio.
Il signor Fogg, mistress Auda e Gambalesta sedettero sopra un banco di fronte ai seggi riservati al magistrato e al cancelliere.
Quel magistrato, il signor Obadiah, entrò quasi subito, seguito dal cancelliere. Era un uomo grosso e tondo tondo. Egli staccò una parrucca sospesa ad un chiodo e se la mise in testa lestamente.
«La prima causa, diss’egli.
Ma, portandosi la mano alla testa:
«Eh! non è la mia parrucca, diss’egli.