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nitello nell’inverno, le strade erano così cattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passare anima viva.

Don Alfonso, che era tenuto nel cotone dai suoi genitori, invidiava al suo amico Jeli la tasca di tela, dove ci aveva tutta la sua roba, il pane, le cipolle, il fiaschetto del vino, il fazzoletto pel freddo, il batuffoletto dei cenci col refe e gli aghi grossi, la scatoletta di latta coll’esca e la pietra focaja; gli invidiava pure la superba cavalla vajata, quella bestia dal ciuffetto di peli irti sulla fronte, che aveva gli occhi cattivi, e gonfiava le froge al pari di un mastino ringhioso quando qualcuno voleva montarla. Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie, di cui era gelosa, e l’andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle.

— Lascia stare la vajata, — gli raccomandava Jeli, — non è cattiva, ma non ti conosce.

Dopo che Scordu il bucchierese si menò via la giumenta calabrese che aveva comprato a San Giovanni, col patto che gliela tenessero nell’armento