dalla lusinga di quella tenerezza orgogliosa, dalla collera di quel ragazzo abituato a fare il suo volere in casa, s’era abbandonata timorosa e felice. Era stato un bel sogno, ch’era durato un mese. Egli saliva furtivo nella cameretta di lei, colle scarpe in mano, e si abbracciavano tremanti, al buio. Il giorno in cui il giovanetto dovette far ritorno all’Università, pioveva a dirotto; essa si rammentava pure dello scrosciare malinconico e continuo di quella grondaia. L’avevano sentito tutta la notte, colle braccia al collo l’una dell’altro, cogli occhi sbarrati nelle tenebre, contando le ore che sfilavano lente sui tetti. Poi lo vide partire coll’ombrello sotto l’ascella e la cappelliera in mano, senza dirle una parola davanti ai suoi. La signora però, coll’istinto della gelosia materna, indovinò le lacrime che doveva soffocare la ragazza in quel momento, e si diede a sorvegliarla. Un giorno, dopo averla mandata fuori con un pretesto, salì nella cameretta di lei, si chiuse dentro, e quando la Lena fu di ritorno