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Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d’avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino Laberinto e rischiarata dalla luna.

Tutt’a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano.

Ella si appoggiò all’inferriata del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell’orizzonte. La luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi in un trasparente vapore.

Un’altra ombra si avanzò e le si mise al fianco.

— Perdio! — disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, — non mi leverò mai d’addosso quest’accidente!

Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso.

— Che dite? — rispose la fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo.