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veramente incantevole era tolto ai miei sogni; sembravami che il mio pensiero si fosse impoverito trovandosi costretto nei limiti della realtà. — Che hai? mi disse. — Nulla, risposi, c’è troppa luce qui. — Ella, povera ragazza, moderò la fiamma della lucerna. Non si avvedeva del turbamento che c’era in me, e non avea paura della funesta avidità con la quale i miei occhi la divoravano. Parlava sorridente, giuliva, come un uccelletto innamorato canta su di un ramoscello; mi raccontò la sua storia, una di quelle storie che l’angelo custode ascolta sorridendo. Aveva amato il cugino con cui l’avevo vista al veglione, era venuta colla zia da Lecco per lui, e il cugino, in capo a due o tre giorni di esitazione, le avea fatto capire bellamente che non l’amava più. Allora, dopo le prime lagrime, ella avea pensato a quello sconosciuto che al veglione della Scala l’avea guardata in quel modo. — Io ti ho letto negli occhi che ti piacevo,