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con una grande finestra ad arco in cima, che lasciava passare dai vetri cascanti e polverosi, il pallido riflesso delle lampade e un vago odor di cantina. All’imbrunire una campanella fessa suonava l’angelus, in cima al muragliene della chiesa, fra i quattro pilastri neri del campanile ritti sul fondo pallido del crepuscolo, e sembrava gettare a flotti nella corte delle ombre grigie, una solitudine più desolata, un desiderio malinconico del paesetto natale, dell’ora in cui i lumi si accendono ad uno ad uno nella stradicciuola tortuosa. Ogni sera alla stessa ora la serva di don Liborio accendeva anch’essa il lume, e lo lasciava solo, nell’anticamera vuota dalla quale arrivavano il suono gaio del pianoforte di Elena, o la voce delle ragazze.
Il giorno della laurea, quando si dovette spalancare il portone a due battenti per lasciar penetrare nella corte la carrozza che veniva a pigliare Cesare in giubba e cravatta bianca, fu un grande avvenimento per tutto