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carico di debiti, audace cogli uomini, e cortesemente impertinente colle signore. Elena sorrideva volentieri con quel pazzo, il quale non cercava di meglio che saldare i suoi debiti, facendosi uccidere in duello, dicevano. Elena invece, col fazzoletto ricamato sulla bocca, mormorava sorridendo: — Che matto!

Cataldi se lo lasciava dire di buon grado in faccia, ogni volta che l’asserragliava in un cantuccio, nel vano di una finestra, dietro un canapè, a ridosso della coda del pianoforte, dove poteva. E s’impadroniva del suo ventaglio, del ciondolo del braccialetto, del lembo di un pizzo, senza lasciarsi imporre dai suoi corrucci da bambina o dalla sua collera leggiadra, facendole piegare il capo e arrossire la nuca sotto le sue calde proteste, recitate con una flemma imperturbabile, con una franchezza che aveva del cinismo.

— Via! quando vi risolverete a dirmi che mi amate? Lasciatevi far la corte. Che temete? Non ci crediamo nè voi nè io. Voi non amerete mai, come me. Voi avete tutti i miei