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un prato. Alcuni sentieri battuti la segnavano con lunghe strisce biancastre da un capo all’altro e la facevano sembrare più grande. All’ingiro erano dei magazzini che non finivano più, con piccole finestre ingraticolate lungo i muri screpolati, con delle immense cantine di cui l’umidità sotterranea trasudava dalle muraglie verdastre, delle rimesse spalancate come stallazzi, delle case di contadini nere e profonde a guisa di antri. Ai due lati, degli abbeveratoi larghi come stagni, che allagavano quella parte della corte, dove sguazzavano le anitre e sgambettavano i monelli colle brache tirate sul ginocchio. La notte vi si sentivano le rane. Da un lato era la scala sconquassata, tremante in ogni balaustro di granito, larga come una scalinata di cattedrale, che si arrampicava tutta a gobbe sino alla porta dell’abitazione principale sormontata da un grande scudo, sbocconcellato, incoronato da un cimiero di cui restava una sola piuma di pietra confitta a un rampone di ferro. Sotto l’arco della scala si rincantucciava come