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A dritta e a manca si stendevano delle praterie immense, solcate dal maggese, tagliati a vasti quadrati di fave; qua e là giallastre di stoppia a perdita di vista. Alle falde delle colline si arrampicavano le vigne, in interminabili filari già diradati dall’autunno, sino agli oliveti, folti, vasti come un mare di nebbia, grigiastri nell’ora malinconica. Più in alto, sulle cime brulle, si vedevano errare le numerose mandre, come delle immense ombre di nuvole vaganti in un giorno procelloso sul paesaggio lontano, e i buoi che scendevano al piano, più radi, di cui si sentiva la campanella monotona nel gran silenzio del tramonto. Di tanto in tanto, s’incontrava un casolare, un gruppetto di fabbricati rustici, specie di piccoli centri di cultura, cogli arnesi sparsi all’intorno sull’aia verde, le alte biche di paglia che sovrastavano il tetto colla crocetta di canna. In fondo, in mezzo a un quadrato di verdura cinto da un muro bianco si vedeva un gran casamento col tetto rosso, i vetri delle finestre lucenti, sormontato da un campanile tozzo.