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Il chirurgo — un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana, come il dottore dal cappello bianco — esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle.

— Diavolo! esclamò Enrico. Non credevo che ci fosse tanta carne sulle mie ossa.

Il dottore voleva fasciargli la ferita: — No, egli rispose; il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio. — Il conte s’inchinò.

Non c’era che dire, quei due bravi giovinotti si scannavano da perfetti gentiluomini.

Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi, di un pallore sinistro; lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non avea tempo da perdere, perchè il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse; si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell’occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all’indietro: sembrava una molla d’acciaio che stia per scattare.