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suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava, e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza.

— Come son felice, mio Dio! esclamava, senza avvedersi guanto egoismo c’era nella sua felicità.

Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. — Aspettami qui, mi disse.

— È inutile, giacchè me ne vado.

— Te ne vai? E perchè?

— Avrete molte visite... È la vostra festa...

— È vero! diss’ella tutta giuliva.

— Vedete che mi rassegno anch’io...

Ella mi guardò in volto con sorpresa.

— Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!

— No.

— Davvero?

— Davvero.

— A domani dunque?