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— Ci faccia sentire qualche cosa! disse Alberto a Velleda con voce lievemente commossa.
Ella parve esitare.
— Sii buona, via! aggiunse Adele.
— È l’ultima volta che ci vediamo; rispose finalmente rivolgendosi ad Alberto; non le posso ricusar nulla.
— L’ultima volta? esclamò Adele.
— Ho detto per ischerzo, sai!
E si mise accanto al piano, scelse la sua musica, e Adele si dispose ad accompagnarla.
Cantava con una mano appoggiata al pianoforte; la luce delle candele, difesa dalle ventole, giocava coi delicati chiaroscuri del suo viso; nella sua voce c’erano vibrazioni che facevano trasalire, che gli ascoltatori sentivano scorrere nelle loro fibre; i giocatori avevano lasciato gli scacchi: Adele stessa di tando in tanto alzava gli occhi verso di lei, con un sentimento d’ammirazione. Tutt’a un tratto Velleda lanciò uno sguardo rapido e fiammeggiante come stoccata ad Alberto che ascoltava, cogli occhi fissi su di lei, pallido e turbato.
— Come hai cantato stasera! le disse Adele abbracciandola.
Ella sorrise sbadatamente.
— Fammi dare del fior d’arancio, mi sento un poco agitata.
Adele andò ella stessa.
Velleda rimase al cembalo, e vedeva Alberti senza guardarlo. Ei le si avvicinò, come affascinato, barcollando, e le si mise accanto — ella sembrò non accorgersene.